giovedì 29 giugno 2017

Le stout e le porter sono birre scure prodotte da malto e orzo tostati.


Storia:La porter fu prodotta per la prima volta a Londra nel corso del XVIII secolo e divenne molto famosa in Gran Bretagna e in Irlanda dove nacquero molti birrifici e pub. Con l'avvento delle pale ale, la popolarità delle birre scure diminuì, eccetto che in Irlanda dove i birrifici Guinness, Murphy's e Beamish crebbero in dimensioni e cominciarono ad esportare la stout irlandese (o "dry stout") in tutto il mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale in Gran Bretagna si diffusero le "milk stout", una variante più dolce, ma la loro popolarità declinò verso la fine del XX secolo, ad eccezione di alcune realtà locali come Glasgow con la sua "Sweetheart Stout", e la "Dragon Stout" in Giamaica.
Inizialmente in inglese il termine "stout" significava "orgoglioso" o "impavido", ma in seguito, dopo il XIV secolo prese il significato di "forte". La prima volta che questo termine fu usato in questa accezione nei confronti di una birra è stata in un documento datato 1677 che fu trovato in un manoscritto di Francis Egerton.
L'espressione "stout porter" fu usata durante il XVIII secolo per indicare una versione particolarmente forte della porter, e fu usata dalla Guinness nel 1820, sebbene producesse porter dal 1780, e sebbene avesse prodotto una ale dalla sua fondazione con Arthur Guinness nel 1759. All'epoca "Stout" significava ancora esclusivamente "forte" e poteva essere associato a qualsiasi stile di birra, purché avesse una gradazione alcolica adeguata: nel Regno Unito, ad esempio era possibile trovare la denominazione "stout pale ale".
In seguito il termine "stout" è stato associato esclusivamente alla porter, diventando un sinonimo di "birra scura".
Verso la fine del XIX secolo, la stout e la porter si guadagnarono la reputazione di essere bibite che fanno bene alla salute, a tal punto che venivano consumate dagli atleti e dalle donne che allattavano; molti dottori inoltre le consigliavano durante la convalescenza per aiutare il recupero del fisico. A testimonianza di ciò, in Irlanda in passato, ai donatori di sangue veniva data una Guinness per il suo alto contenuto di ferro.

Tipologie  di stout:
Dry stout:Le stout irlandesi o dry stout sono molto scure e spesso hanno un sapore "tostato", simile a quello del caffè. Sia il contenuto alcolico, sia il gusto "asciutto" (in inglese dry) sono piuttosto leggeri, anche se cambiano di paese in paese.
Imperial stout:L'Imperial stout, anche conosciuta come "Russian Imperial Stout", è una birra scura forte che fu prodotta per la prima volta nel birrificio di Thrale a Londra per esportarla alla corte dello zar di Russia.Il contenuto alcolico è piuttosto alto (normalmente 9-10% vol) in modo da poterla conservare durante i lunghi viaggi, e per rinvigorire chi la beveva in climi freddi. Il colore è molto scuro, quasi sempre nero opaco.
Porter:Porter è un nome alternativo della stout che fu usato soprattutto nel XVIII secolo. Storicamente, tecnicamente e culturalmente non esistono differenze tra stout e porter, sebbene ci sia una tendenza dei mastri birrai a differenziare le loro birre a seconda della gradazione alcolica in "extra", "double" e "stout". Perciò il termine "stout" veniva usato per indicare la porter più forte tra tutte quelle prodotte da ogni singolo birrificio; proprio per questo motivo la porter di un certo birrificio poteva essere più forte della stout di quello vicino. Nonostante questo inconveniente, questa è stata l'accezione più comunemente utilizzata.
Milk stout:La "milk stout" (chiamata anche "sweet stout" o "cream stout") è una stout contenente il lattosio, uno
zucchero derivato dal latte. Questo ingrediente non viene fermentato dal Saccharomyces cerevisiae, e proprio per questo aggiunge dolcezza, corpo e calorie al prodotto finito. L'esempio tipico di sweet stout è la Mackeson's XXX.
In passato si pensava che la milk stout fosse molto nutriente e veniva data alle donne in allattamento. Storicamente il primo ad avere una licenza per produrre una birra basata sul lattosio, il siero di latte e il luppolo fu John Henry Johnson nel 1875. La milk stout però non si diffuse largamente almeno fino al 1910, quando cioè il birrificio Mackeson's acquistò la licenza e iniziò a produrla; in seguito il permesso fu concesso a molti altri birrifici.
Oatmeal stout:La oatmeal stout è una stout con una certa percentuale di avena, normalmente non superiore al 30%, aggiunta durante il processo produttivo. Sebbene una quantità superiore al 30% di avena possa conferire alla birra un gusto troppo amaro,durante il medioevo in Europa, l'avena era un ingrediente comune per le ale, ed era presente in quantità superiori al 35%. Tuttavia, a parte in alcune aree d'Europa, come la Norvegia, nelle quali l'avena è stata usata fino alla prima parte del XX secolo, quest'usanza si è quasi completamente estinta nel corso del XVI secolo, tant'è che si riporta che, nel 1513, sotto la dinastia Tudor i marinai si rifiutarono di bere la birra all'avena che gli veniva offerta a causa del suo sapore amaro. Verso la fine del XIX secolo ci fu una ripresa di interesse nell'usare l'avena, ma durò solo fino agli inizi del XX secolo. Quando lo scrittore Michael Jackson la menzionò nel suo libro del 1977, The World Guide to Beer, la oatmeal stout non era più prodotta da nessuna parte, ma Charles Finkel, fondatore della compagnia di importazione "Merchant du Vin", fu abbastanza curioso da commissionare il birrificio Samuel Smith per produrne una versione. La Oatmeal Stout di Samuel Smith in seguito divenne il modello per le versioni degli altri birrifici.
Chocolate stout:Chocolate stout è il nome che i mastri birrai danno ad alcune stout dal sapore che ricorda
particolarmente il cioccolato fondente. Vengono prodotte attraverso l'uso di malti particolari più scuri e più aromatici. Talvolta le birre possono essere prodotte anche con una piccola quantità di vero cioccolato, come nel caso della Double Chocolate Stout, e della Chocolate Stout. Il Brooklyn Brewery di New York produce una Black Chocolate Stout molto forte (10.6% vol) che usa sei tipi diversi di cioccolato nero e malti tostati.Il birrificio danese Denmark's Ølfabrikken brewery ha prodotto una stout forte chiamata ØL, che è fatta con ingredienti da quattro continenti: cacao dal Sud America; caffè dall'Asia; luppolo dal Nord America e malto dall'Europa.
Coffee stout:I malti scuri tostati possono conferire una nota di caffè amaro al sapore della birra. Alcuni mastri birrai, per enfatizzare questo gusto, aggiungono un sottofondo di caffè. Queste birre prenderanno dei nomi come "Guatemalan Coffee Stout", "Espresso Stout", "Breakfast Coffee Stout", etc. La gradazione alcolica di queste stout al sapore di caffè varia dal 4% fino ad oltre 8% vol. La maggior parte di queste birre sono asciutte e amare, tuttavia in alcune si aggiungono latte e zucchero per creare una stout dolce che può prendere il nome di "Coffee & Cream Stout" o solo "Coffee Cream Stout".
Oyster stout:Le ostriche (in inglese oyster) sono state abbinate a lungo alla stout. Quando si diffusero le prime stout, nel XVIII secolo, le ostriche erano un alimento molto diffuso, spesso servito nei pub e nelle
taverne. Il primo ad aver abbinato ostriche e Guinness si dice sia stato Benjamin Disraeli nel XIX secolo. Tuttavia con l'avvento del XX secolo il mercato delle ostriche era in declino e le stout furono soppiantate dalle pale ale.
Le prime notizie riguardo l'utilizzo di ostriche durante un processo produttivo della birra risalgono al 1929 in Nuova Zelanda, e in seguito dal birrificio Hammerton di Londra nel 1938.

mercoledì 28 giugno 2017

Nobile di Montepulciano





Vino Nobile di Montepulciano: zona di produzione e origine

Il Nobile di Montepulciano o, almeno, il suo progenitore, viene prodotto in Toscana da tempi antichissimi. Già gli Etruschi producevano vino in queste zone, mentre la prima testimonianza scritta è da riferirsi allo storico latino Livio che, nelle sue “Storie”, riporta come i barbari dalla Gallia furono convinti a varcare le Alpi proprio dopo che fu loro fatto assaggiare il vino qui prodotto! Il primo, vero riferimento al Montepulciano risale comunque all’anno 789, e precisamente in un documento che attestava il lascito di una vigna alle autorità ecclesiastiche locali.
Da allora il Montepulciano attraversò i secoli e la storia, nei quali venne apprezzato da sovrani e nobili non solo italiani, ma anche di nazioni extraeuropee; durante questo periodo si alternarono momenti di grande notorietà ad altri nei quali il vino scivolò in un
immeritato oblio. Ma la vera e propria svolta avvenne all’inizio dello scorso secolo quando, precisamente nell’anno 1937, venne fondata la prima cantina sociale che riuniva i produttori del Vino Nobile di Montepulciano.
Da lì a breve e, precisamente, nel 1966, venne riconosciuta al Vino Nobile di Montepulciano l’attestazione DOC (Denominazione di Origine Controllata), mentre il livello più alto in assoluto, ovvero la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG), gli venne assegnata nel 1980. Il Montepulciano è stato, a tal proposito, il primo vino in Italia a conseguire la
prestigiosa certificazione DOCG.

martedì 27 giugno 2017

"weiss" tedesca e la "blanche" belga quale è la differenza?

Birra di frumento ("weiss" tedesca e la "blanche" belga)

Il nome birra di frumento è usato per indicare un'ampia famiglia di birre prodotte dalla fermentazione del grano, sempre misto a malto d'orzo; si distinguono per la loro leggera cremosità, il sapore dolciastro e la spiccata nota acida. Solitamente sono ad alta fermentazione, ovvero appartengono alla famiglia delle ale; in particolare in Germania lo devono essere per legge. Sono talvolta chiamate
"birre bianche", ma non a causa del loro colore, che è anzi spesso di un biondo opaco (principalmente dovuto alle parti di lievito in sospensione), ma a causa della schiuma che si genera durante la fermentazione. Mentre l'orzo è sempre maltato, il frumento può essere maltato oppure non maltato: questa peculiarità è alla base della differenza tra la "weiss" tedesca e la "blanche" belga.
Il termine Weizenbier significa in lingua tedesca "birra di frumento", ma è anche in uso, soprattutto in Baviera il termine Weißbier o Weissbier ("birra bianca"). Il bicchiere in cui vengono servite (tipicamente da 0,5l) è caratteristico e non si usa mai il classico boccale da birra ma uno particolarmente alto, largo alla bocca, stretto ai fianchi e leggermente più largo alla base.
Come ricordato, nelle Weizen tedesche il grano è sempre maltato così come la frazione di orzo.
Le principali varianti sono:

  • Hefeweizen: la versione "pura", una bionda torbida in cui il lievito in sospensione non viene filtrato (Hefe significa appunto "lievito").
  • Kristallweizen: la birra viene filtrata, conferendole un colore più cristallino; è spesso servita con una fetta di limone e talvolta chicchi di riso.
  • Dunkelweizen: è la versione come birra scura (dunkel in tedesco).
  • Weizenstarkbier: è la variante con maggior contenuto alcolico.
  • Weizenbock: variante fermentata con la tecnica bock.
  • Leichtes Weizen: versione leggera, con un ridotto contenuto alcolico.

La Hefeweizen, senza dubbio la variante più nota, è stata esportata in molte parti del mondo, tuttavia
vi sono grandi differenze rispetto alla versione originaria, ad esempio negli Stati Uniti contiene meno grano e più orzo, ed è spesso servita con una fetta di limone o d'arancia.
In Germania sono anche diffuse, in particolari dai microbirrifici, le Weizen con una percentuale di altro cereale (maltato, raramente crudo): avena e farro sono i più utilizzati.
Berlinerweisse
La "bianca di Berlino" è, come dice il nome, una varietà di Weizenbier prodotta nell'area di Berlino; è piuttosto leggera (circa 2,8% di alcol) e di sapore relativamente acido (dovuto alla presenza di lieviti selvaggi durante la fermentazione), e viene tipicamente servita in un ampio calice, a una temperatura tra gli 8° e i 10°, con una cannuccia. Per attenuare il sapore acidulo, viene tipicamente insaporita con estratti di lampone, limone o Waldmeister, un preparato a base di asperula.
GoseLa Gose è una varietà di birra originaria di Goslar che è oggi una delle birre più tipiche di Lipsia; è fermentata da un composto di frumento, coriandolo e sale, e vi vengono aggiunti fermenti lattici durante la bollitura. La Gose è attualmente prodotta solo in 3 birrerie, due delle quali a Lipsia, e una a Goslar.
La bière blanche (in lingua francese) o witbier (in lingua olandese), traducibile in entrambi i casi come "birra bianca", è prodotta principalmente in Belgio, ma anche nel Nord-Est della Francia e in Olanda.  È prodotta seguendo in parte la tradizione medievale, in cui anziché usare il luppolo (oltretutto vietato nell'antica legge

francese) si ricorreva a una mistura di erbe e spezie note in olandese come gruut: nella ricetta moderna questo è composto di coriandolo, arancia, arancia amara e luppolo. Questa mistura conferisce alla birra un sapore più fruttato e acidulo del corrispondente tedesco, e risulta molto rinfrescante d'estate; inoltre la birra subisce una seconda fermentazione nella bottiglia. A differenza della cugina tedesca, viene prodotta utilizzando frumento non maltato e spesso avena, ed è generalmente servita in bicchieri più bassi e tozzi rispetto a quelli alti e stretti delle weizen tedesche.
Un'altra birra belga, il Lambic, può essere considerata una birra di frumento ma non una witbier, , perché prodotta per fermentazione spontanea.

Lacryma Christi il vino degli antichi romani....il vesuvio l'elemento centrale di tutto il territorio campano




Da sempre il Vesuvio rappresenta l'elemento centrale di tutto il territorio campano. Storicamente il vulcano si è configurato come il fulcro, non solo geografico, delle attività e delle produzioni, delle arti e della civiltà di tutti i popoli che qui si sono avvicendati. Lungo le sue pendici si sono addensati e succeduti gli agglomerati urbani, sebbene spesso sotto le sue coltri ardenti siano scomparse intere comunità. Eppure l'uomo, nel corso dei secoli della sua storia, in ogni circostanza, all'indomani di ogni singola catastrofe, con ostinazione è tornato a lavorare in quei luoghi minacciosi, a coltivare quegli erti e scuri pendii. E' tornato qui, sul Vesuvio, anche per parlare con l'anima oscura del Gigante, per rabbonirlo e carpirne benevoli auspici. E' questa l'essenza del mistero di questi luoghi: alla base c'è il patto che l'uomo ha stretto col vulcano, un patto che gli ha consentito di costruire proprio qui d'attorno la sua casa, di posare su queste contrade i suoi attrezzi, di seminare la terra e raccoglierne in premio dei frutti davvero speciali.


I prodotti

Tra i prodotti generosi di questa fertile terra sono particolarmente rinomati alcuni frutti come la ciliegia, l'albicocca - di cui si conoscono almeno dieci varietà autoctone - e un tipo di noce, pressoché esclusiva di questi luoghi, da cui si ricava un ottimo liquore nocino. Qui anche l'uva è forte e vigorosa: i vitigni, quasi tutti a piede franco,

discendono direttamente da quegli antenati discendenti dagli Aminei di Tessaglia. Coltivati nella fascia pedemontana fino ai 400 metri di altezza, i vigneti traggono carattere minerale, spessore e potenza dal terreno vulcanico. Questo è il regno del piedirosso, che in provincia di Napoli assume il nome dialettale di "per' e palummo" per la somiglianza del suo graspo con il piede del colombo ("columbina purpurea", per gli antichi romani). In quest'area centrale del Golfo di Napoli il piedirosso riassume e assomma in sé tutte le varie sfumature di gusto che lo caratterizzano altrove, da Ischia ai Campi Flegrei, dalla Penisola Sorrentina a Capri. Questo è anche il luogo in cui meglio si esprime lo sciascinoso - chiamato da queste parti "olivella", come la fonte sorgiva che scivola sull'omonimo declivo dell'Olivella, sul Monte Somma, la più piccola delle due cuspidi vesuviane. E poi, ancora tra i rossi, si coltiva anche l'aglianico, atto a dar forza e a definire la composizione dell'uvaggio del disciplinare della DOC Vesuvio. Tra i bianchi la falanghina, la coda di volpe - impropriamente chiamata "caprettone" - la verdeca e la più recente catalanesca, importata a Napoli solo verso la metà del '400 dagli Aragonesi.


Origini di un nome


Mito e realtà, leggenda e credenze popolari si fondono nella storia del Vesuvio e del suo vino, il Lacryma Christi. Una di queste leggende, ripresa suggestivamente dal grande poeta francese Alfred de Musset, vuole che Gesù, accortosi del furto compiuto dal suo
angelo Lucifero che allontanandosi dopo la cacciata aveva rubato un pezzo di Paradiso per farne in terra il Golfo di Napoli, pianse a dirotto e proprio dal suo pianto nacque la vite del Vesuvio. Secondo un'altra e meno romantica versione Gesù, comparso sotto mentite spoglie ad un eremita, fintamente assetato gli chiese da bere e, per ricompensare la pronta generosità di quello, trasformò la sua acqua in nettare di vino.
Certo queste leggende si perdono nella notte dei tempi, ma quel che è sicuro è che il segreto di questo vino prezioso, come in tanti casi analoghi del passato, fu custodito a lungo dai monaci, in particolare dai Cappuccini che si erano insediati nella "Turris Octava", l'ex colonia romana distante, appunto, otto miglia da Napoli. Proprio da allora e grazie all'opera dei frati contadini, la città assunse il nome di Torre del Greco, la città del "vino greco" che qui vi abbondava.


La DOC, il disciplinare, le aziende


Per quanto siano radicate le tradizioni del Lacryma Christi, l'istituzione della DOC è piuttosto recente e risale al 1983. Il nome della doc è Vesuvio e l'appellativo Lacryma Christi è la sottodenominazione di cui il vino può fregiarsi quando la resa è contenuta al 65% dell'uva e quando il titolo alcolometrico raggiunge almeno il 12%. Diciamo subito che oltre il 90% del prodotto in circolazione rientra nella sottodenominazione, mentre il restante 10%, circa 2000 ettolitri di vino, viene imbottigliato col solo nome Vesuvio. Mentre per la doc Vesuvio sono previste solo le tipologie bianco, rosso e rosato, per il Lacryma sono consentite anche le lavorazioni in spumante - bianco rosso e rosato - e la tipologia liquoroso bianco. I vitigni base indicati dal disciplinare sono,
Caprettone

per il bianco la coda di volpe e per il rosso (e per il rosato) il piedirosso, previsti - se da soli - rispettivamente nella percentuale minima del 35% e del 50%. Fermo restante il minimo percentuale previsto di questi due vitigni, l'uvaggio del bianco può essere fatto con verdeca ed il rosso con sciascinoso, per un minimo-somma dei due vitigni dell'80% del totale. Per il restante 20% è consentito l'uso della falanghina e/o del greco per il bianco e dell'aglianico per il rosso.

Dalla scelta delle uve imposte dal disciplinare derivano conseguenze dirette. I vitigni-base indicati dal disciplinare, la coda di volpe e il piedirosso, se conferiscono al vino una naturale morbidezza ed una discreta eleganza, non hanno, sul versante opposto, la necessaria forza espressiva, l'acidità, la struttura e la potenza che invece appartengono ai complementari verdeca e falanghina (soprattutto per l'acidità), greco (acidità e struttura) e aglianico (in ordine a struttura, potenza e longevità). Ciò comporta una naturale diversificazione del prodotto finale a seconda della scelta dell'uvaggio, oltre, ovviamente, allo stile personale di vinificazione delle varie aziende e alla scelta dei tini di maturazione.
Piedirosso
Anche la tradizione va modificandosi, e così nella vinificazione del bianco mentre un tempo si sceglieva la macerazione sulle bucce, sempre più oggi si vinifica a temperatura controllata. Nella vinificazione del rosso sicuramente prevale l'uso dell'acciaio ma sempre più produttori, soprattutto quelli che scelgono di adoperare l'aglianico, amano maturare il lacryma in legno, in particolare nelle piccole barriques.
Da tutti questi elementi emerge chiaramente un quadro produttivo a dir poco disomogeneo, da cui è difficile trarre i tratti comuni del Lacryma Christi.

Premesso che non dirò delle aziende che risiedono fuori dal comprensorio vesuviano e che pur producono degli ottimi Lacryma e che sono anche "in altri vini affacendati", tra i migliori esempi di Lacryma Christi voglio citare, in primo luogo, l'azienda di Gabriele De Falco di San Sebastiano al Vesuvio. Questa azienda ha realizzato diversi cru tra i quali spiccano il bianco Le Ali dell'Angelo - un'ottima coda di volpe passata anche in legno, morbida e spessa, profumata ed elegante - e il rosso Vigna dell'Angelo, uno dei pochi Lacryma a base piedirosso che, nonostante il lungo affinamento di circa 18 mesi tra barriques e bottiglia, riesca a conservare integra la trama, fitta e densa, ed una buona acidità di bocca.

Prova di qualità costante nel tempo quella di Fioravante Romano, una secolare azienda con sede in Ottaviano. La casa vinicola, guidata da Sergio, pur vantando produzioni medie annuali di oltre 600mila bottiglie, da sempre per scelta distribuisce esclusivamente agli esercizi specializzati e punta sulle esportazioni come principale mercato di riferimento, cui è destinata circa il 65% della produzione. Il Lacryma bianco di

quest'azienda rivela al tempo stesso forza e correttezza. Al naso è fragrante e gentile, fruttato e mai troppo spinto, al gusto è pieno e fresco, sapido al punto giusto e giustamente morbido: è un gran compagno per fritture di mare, alici fritte, totani e pesce di paranza. Il rosso di Fioravante Romano è elegante al naso, con sfumature vegetali e speziate, pieno e succoso al gusto, ha struttura e potenza.

Più fresco e beverino il rosso dell'altra azienda omonima di Ottaviano, quella di Michele Romano, con note fruttate all'olfatto e grande dinamismo al palato, dove si fondono in un ottimo equilibrio acidità, morbidezza e vigore. Fiori di ginestra, olivelle salmastre e crosta di pane corredano i sentori del Lacryma bianco di Michele Romano, la grande acidità di bocca ne consiglia l'abbinamento ai formaggi freschi ed alla cucina di mare.

I passi da gigante compiuti dall'azienda Sannino di Ercolano, soprattutto nella capacità di evoluzione, di trasformazione aziendale e nell'opera di continua interpretazione dei mercati, fanno di questa azienda una delle realtà di primo piano di tutta l'area vesuviana. I vini prodotti da Sannino negli ultimi anni - a prescindere dagli svariati riconoscimenti ottenuti che, si badi, trovano il tempo che trovano - sono stati additati quali modelli da seguire per tutta l'enologia del Lacryma Christi del Vesuvio. Personalmente ritengo che Sannino realizzi il suo top con il rosato, intrigante già dal naso, con i suoi sentori speziati, con gli aromi di gelso e clementina, e ancor più alla bocca dove si legano, all'interno di un'inconsueta struttura, lunghe note di acidità, mineralità ed anche di morbidezza.


Il Lacryma Christi: un nome alla ricerca di identità

La fama di questo vino è legata probabilmente alle leggende, ma anche agli equivoci che spesso sono sorti sulla sua identificazione. Spesso si è creduto si trattasse di un vino dolce: c'è addirittura qualcuno - sto parlando di persone competenti o presunte tali - che ha contribuito a creare confusione proprio mettendo in giro altre notizie, suggestive quanto fasulle, sull'origine del suo nome e sulle regole produttive: "..si possono fregiare della denominazione di Lacryma Christi solo quei vini prodotti da uve che sono state raccolte quando dai loro acini stillano lacrime di zucchero..".

Proprio dalla sua storia, poi, si può intuire quali e quanti siano stati i mutamenti subiti nel corso dei secoli da questo vino, mutamenti che hanno contribuito ad una sorta di
"identità perduta" del Lacryma. Tanto per cominciare era il Greco il vitigno bianco più coltivato che costituiva in passato la base per il vino vesuviano, l'aminea gemina del Besubion di cui ci hanno tramandato doviziose notizie Strabone, Marziale, Plinio e Columella. Invece il Greco oggi è consentito che possa soltanto concorrere, da solo o con la falanghina, a non più del 20% dell'uvaggio del Lacryma Christi. Anche la catalanesca, sebbene nuovamente vinificabile a partire dalla vendemmia 2006 e nonostante la sua presenza storica sul territorio, essendo consentita - almeno per ora - solo per farne vino da tavola, non può essere utilizzata nella DOC Lacryma.

Anche il nome, questa seducente definizione "Lacryma Christi" non aiuta, e non solo i profani di vino ma anche consumatori poco esperti, a legare questo vino al suo territorio d'origine. In realtà basterebbe sapere che il nome della DOC è "Vesuvio" per collegarlo facilmente alla sua dimora d'origine. Invece proprio la sottodenominazione della DOC, il nome Lacryma Christi ha reso questo vino famoso in tutto il mondo ma non aiuta forse a capirne la provenienza. Il Lacryma infatti è chiamato e conosciuto con questo nome ormai da secoli ed ha fatto la sua fortuna sicuramente più all'estero che in Italia. A riprova di ciò ci sono i fatturati ed i numeri sulle produzioni, che evidenziano la prevalenza delle esportazioni rispetto al mercato nazionale. Più della metà della produzione  oggi è destinata ai mercati stranieri, in particolar modo al mercato a stelle e strisce.

Altro motivo di confusione, o meglio di mancata identificazione con il territorio d'origine, è la presenza di numerose e rinomate cantine che producono il Lacryma al di fuori dell'area d'origine. Il territorio della DOC comprende infatti quindici comuni della provincia di Napoli, praticamente l'intero comprensorio geografico alle pendici del vulcano. Qui si trovano i 290 ettari di vigneti, "polverizzati" fra una miriade di piccoli conferitori e 19 vinificatori, tra i quali solo in pochi sono a loro volta anche proprietari: la superficie media, molto al di sotto della media nazionale, non supera un moggio (unità di misura -
3.364,86 m2 ) di terreno.
Nel resto della provincia di Napoli, ma fuori dalla DOC, si collocano ancora 6 produttori, e un'altra decina lavorano il Lacryma nelle province di Avellino, Benevento, Caserta e Salerno. Uno di questi produttori, Mastroberardino, è sicuramente un faro per l'enologia campana ed è stato anche tra i pochi a credere nelle possibilità del Lacryma Christi, diventando l'unico vero riferimento per tutti i produttori.

Anche Sergio Romano, brillante enologo dell'azienda Fioravante Romano, nonché di altri produttori di Lacryma, crede che manchino queste strategie: "Comunicare un vino significa comunicare il territorio, e quando sul territorio mancano i punti di riferimento tutto è più difficile. Sicuramente Mastroberardino rappresenta una guida e un esempio per tutti, ma non ha sede nel territorio vesuviano. Per il Lacryma Christi ci può essere un futuro, invece - afferma Sergio Romano - solo con la valorizzazione del territorio e con la identificazione del prodotto con il territorio stesso. A sua volta poter identificare un vino con il territorio d'origine significa renderlo riconoscibile".

Una delle cause principali dell'assenza di una vera, marcata affermazione di questo vino e delle sue grandi potenzialità, sta probabilmente proprio nella mancanza di un sistema
di mercato efficace, nell'assenza di un marketing congiunto o più semplicemente di strategie di comunicazione. Ma la recente creazione di un Consorzio del Lacryma Christi, sempre che non si tratti dell'ennesimo tentativo destinato a fallire, e l'esistenza di una Strada del Vino che fa capo a Antonio Pesce, enologo fra i più attivi in area vesuviana, fanno ben sperare. A ciò aggiungiamo che buona parte del territorio del Lacryma ricade nel Parco Nazionale del Vesuvio, in un'area quindi protetta per legge, anche se la più piccola d'Italia, con appena 8.400 ettari.


Secoli di storia dal futuro incerto...

Destino curioso, quello del Lacryma, che deve la sua fama attuale più ad aziende irpine, come Mastroberardino e Terredora, nonché alla casa flegrea Grotta del Sole, quanto piuttosto agli opifici del luogo. Eppure raramente si trovano, all'interno di una DOC, tante aziende storiche, alcune addirittura secolari. Basti citare il pioniere del Lacryma Christi, Saviano 1760, il cui nome ricorda l'anno di fondazione, o come la cantina Scala, nata a Portici all'inizio dell'800. O ancora le secolari attività di Fioravante Romano e di Romano Michele. E quasi tutte le altre hanno dovuto salvare le proprie strutture dalle distruzioni delle guerre mondiali o hanno dovuto reimpiantare le vigne dopo l'ultima eruzione del Vesuvio...

C'è un altro fenomeno che riguarda il piccolo mondo del Lacryma Christi: qui non si assiste a grandi ricambi generazionali, anzi...Non si moltiplica il numero di aziende, come accade quasi quotidianamente per i vini più blasonati, soprattutto grazie al fenomeno della trasformazione degli ex conferitori d'uva in neoproduttori. Forse perchè fare il Lacryma Christi è un po' come i mestieri di una volta, quelli che non rendono molto ma gelosamente si tramandano di padre in figlio, finché prima o poi, tra i discendenti, qualcuno interrompe la miracolosa catena perché, si sa, ci sono sempre mestieri meno faticosi e più redditizi...

Eppure c'è qualcuno, come Mariarosaria De Rosa e Massimo Setaro, giovane coppia alla conduzione di Casa Setaro, che da poco ha deciso di iniziare una produzione di vino ed ha scelto di farlo proprio con lo scontroso Lacryma. Nel corso di questi primi tre anni i loro vini si sono incredibilmente ingentiliti: il bianco ha saputo smussare
alcune asperità, in particolare la mineralità eccessiva, ed il rosso ha acquistato forza ed espressività, ristabilendo un gran bell'equilibrio gustativo. Il vino di punta, poi, il rosso Don Vincenzo con sole due esperienze di vendemmia già si presenta assai fine e armonioso: al naso è molto ricco con aromi balsamici e di frutta matura, spezie e caffè tostato. Alla bocca è dinamico e potente, ancora di buona acidità; il finale è lungo e carezzevole.

E allora, ben vengano nuove aziende che oggi, potremmo dire, "coraggiosamente" intraprendono la lavorazione di questo famoso e difficile vino del Vesuvio.






10 Domande per Sommelier 07/02/2020

Inizia il test 07/02/2020